“L’idea
di un museo non sarebbe stata neanche pensabile per chi, come me, proviene
da una famiglia povera.
Nella nostra casa gli oggetti, pochi e rari, erano quelli dell’uso
quotidiano, della nostra vita di tutti i giorni. Altri invece —
fotografie di famiglia, immagini devote, o ricordi di emigrazioni o di
guerra — rappresentavano delle vere e proprie reliquie che sarebbe stato
impensabile, perfino sacrilego, sottrarre e deportare altrove.
È stato dopo lo sbarco degli alleati, durante le battaglie che si
combattevano per la conquista delle terre incolte da parte dei contadini,
che ho cominciato a prendere coscienza di una realtà che mi costringeva a
osservare e a capire.
Quando ci recavamo nei feudi e nelle terre in abbandono, spesso i
contadini buttavano via gli attrezzi dell’uso quotidiano: cucchiai e
collari in legno per bovini o per ovini si ritrovavano spesso negli
immondezzai; con un gesto che voleva distruggere tutto un cattivo passato.
Era il rifiuto di tutto un mondo che rappresentava per loro uno stato di
oppressione, il loro male antico.
Erano oggetti che io avevo visto fin dalla nascita e che costituivano gli
utensili della pratica quotidiana nella nostra famiglia, così povera che
perfino sull’unico cantarano — portato in dote da mia madre — il
falegname aveva sostituito il piano di marmo con quello di legno dipinto:
per risparmiare, si diceva in famiglia.
Sul cantarano liberty gli oggetti erano rarissimi: solo in ottobre le
poche chicchere superstiti dei regali di matrimonio venivano arricchite da
melecotogne, che maturavano lentamente e riempivano di aromi naturali —
resistenti fino alle soglie dell’inverno — i grandi locali imbiancati
di viva calce.
Era impensabile per me fare un museo di simili oggetti.
Ma quando questi utensili cominciarono a subire la distruzione, come mi
venne di osservare durante le lotte contadine, inconsciamente mi resi
conto che c’era qualcosa che noi stavamo perdendo irrimediabilmente.
Non avevo ancora vent’anni, e cercavo di recuperare tutto quello che
potevo.
I miei interessi allora erano rivolti alla poesia, compresa quella
popolare.
La scuola, che a mia madre e ai miei nonni era costata fame e fatiche
indicibili, non mi aveva però dato possibilità di intendere il senso
delle cose che raccoglievo. Cominciai a prendere coscienza solo a
vent’anni, quando emigrai in Brianza, a contatto con uomini di
estrazione culturale diversa dalla mia. Tra i primi conobbi Ernesto
Treccani, Raffaellino De Grada, Salvatore Fiume, Luigi Guerricchio, e
quindi Luciano Budigna, Bartolo Cattafi, Piero Chiara, Scheiwiller, e
Bosio e Leydi.
Durante il periodo delle vacanze ritornavo in paese. Giovane ero già
sposato. Mia moglie proviene da una famiglia di coltivatori diretti.
Insieme, io e mia moglie, cominciavamo le nostre escursioni alla ricerca
della poesia popolare e via via degli usi, delle tradizioni, del modo di
vivere delle classi popolari.
Quei primi oggetti e attrezzi di lavoro rinvenuti nei rifiuti, ora, dopo
il fallimento della riforma agraria e con la grande emigrazione, era più
facile trovarli abbandonati tra le macerie: tra i muri crollati e sotto le
tegole, nell’incuria generale. Già prevalevano gli oggetti di consumo,
che oltre tutto rappresentavano un mondo di promozione sociale.
L’utensileria dei grandi magazzini faceva concorrenza ai cucchiai di
legno e agli strumenti popolari.”
Antonino
Uccello
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Il
pane e la panificazione |
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Il
telaio della casa ri massaria |
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Cavagne:
Fiscella di canna
per deporvi la ricotta |
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Lavorazione
a intreccio |
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Il
trappitu, cioè frantoio per le ulive |
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Mantellina
per neonato |
Le
fotografie qui pubblicate sono di Giuseppe Leone e Nino Privitera
tratte
dal sito di Antonino Uccello |
Url:
www.antoninouccello.it |
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